Espropriazioni per pubblica utilità

Il regime vincolistico

Il nostro sistema giuridico prevede due tipi di vincoli che vengono a gravare sulla proprietà privata:

  • i vincoli legali che gravano su tutti gli immobili appartenenti ad una determinata categoria di beni e che, per qualità intrinseche e per la funzione sociale che assolvono, escludono la loro suscettività edificatoria (ad esempio: vincoli di natura archeologica, paesistica, storica, artistica, etc...). Questi vincoli sono di tipo permanente e non indennizzabili (1);

  • i vincoli urbanistici che discendono dalle scelte pianificatorie della pubblica amministrazione e che, preodinati alla espropriazione, sottraggono l’area alle possibilità di edificazione. Questi vincoli, di tipo urbanistico, sono temporanei ed indennizzabili nel momento in cui vengono sottratti alla proprietà privata.

Vincoli legali permanenti e
non indennizzabili

Vincoli urbanistici temporanei ed indennizzabili

(1) Cfr., Corte Costituzionale, 28.07.1995, n. 417.

Il concetto di vincolo urbanistico è stato introdotto dalla L. 1150/1942 che, attraverso il combinato disposto degli artt. 7 e 40, ha previsto, in sede di formazione del P.R.G., l’imposizione dei vincoli di zona sul territorio, in origine a tempo indeterminato, e la loro non indennizzabilità (2).

In tal modo si veniva a determinare una vera e propria espropriazione degli immobili senza che al privato fosse riconosciuto un serio ristoro per il sacrificio sostenuto.

Vincolo urbanistico

 

 

L’imposizione del vincolo su un’area, pur non determinando il trasferimento coattivo della proprietà dal privato cittadino alla pubblica amministrazione, restando la disponibilità dell’area - più teorica che pratica - al proprietario, determinava, di fatto, un esproprio senza indennizzo. Questa modalità di esproprio è conosciuta in giurisprudenza ed in dottrina con il termine espropriazione anomala.

Espropriazione anomala

 

(2) "Il piano regolatore generale deve considerare la totalità del territorio comunale.
Esso deve indicare essenzialmente:
+ la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti;
+ la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all’espansione dello aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona;
+ le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciale servitù;
+ le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale;
+ i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico;
+ le norme di attuazione del piano" (art. 7, L. 1150/1942).
"Nessun indennizzo è dovuto per le limitazioni ed i vincoli previsti dal piano regolatore generale nonché per le limitazioni e per gli oneri relativi all’allineamento edilizio delle nuove costruzioni"
(art. 40, L. 1150/1942).

Nel 1968, la Corte Costituzionale, investita del problema, con sentenza del 29 maggio, n. 55, ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle disposizioni dell’art. 7, nn. 2-3-4, e dell’art. 40 della L. 1150/1942, con riferimento all’art. 42, comma 3 (3), della Costituzione, in quanto dette disposizioni non prevedevano un indennizzo per l’ imposizione di limitazioni operanti immediatamente ed a tempo indeterminato, ravvisando nelle limitazioni stesse contenuto espropriativo.

La stessa Corte, con sentenza n. 56 in pari data, ha invece riconosciuto la legittimità dell’art. 15 della legge provinciale di Bolzano 24.07.1957, n. 8, che esclude l’indennizzo per l’imposizione di vincolo preordinato alla tutela delle bellezze naturali, in quanto esse costituiscono una categoria di beni che è, in base alla legge, tutta di interesse pubblico.

Illegittimità costituzionale
artt. 7 e 40 L. 1150

 

(3) "La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale" (art. 42, comma 3, Cost.).

La sentenza n. 55 provocò la reazione degli Enti locali che non erano assolutamente in grado di fronteggiarne gli effetti, indennizzando i proprietari di aree sottoposte ai vincoli di piano. D’altra parte, in loro assenza si sarebbe determinato il caos sul territorio in quanto non è pensabile una seria pianificazione senza la previsione di vincoli.

Tale, giustificata reazione trovò il sostegno della dottrina più autorevole, evidenziando che l’imposizione dei vincoli era cosa del tutto diversa dall’esproprio e poneva soltanto un problema di tipo compensativo nei confronti della proprietà privata. Vale per tutti il pensiero del prof. M. S. Giannini che affermava: "Con buona pace dell’ ambigua sentenza della Corte Costituzionale, siamo totalmente fuori dal modello dell’espropriazione".

 

 

 

In conseguenza della sentenza è stata promulgata la L. 19.11.1987, n. 1187 (cosiddetta legge tappo o legge tampone) che ha riscritto l’art. 7 ed il primo comma dell’art. 40 della L. 1150/1942 ed ha limitato l’efficacia dei vincoli di piano in cinque anni (4) dalla data di approvazione del P.R.G. Durante questo periodo di tempo debbono essere approvati i piani particolareggiati ed autorizzati i piani di lottizzazione, ed i vincoli hanno efficacia per tutto il tempo previsto per l’attuazione dei medesimi piani attuativi (5). Trascorso tale periodo si determina la decadenza del vincolo per la parte del territorio in cui il piano non è stato attuato.

Legge tampone

 


Efficacia dei vincoli
e loro decadenza

(4) Nella Regione Sicilia la durata del vincolo è stata estesa a 10 anni dall’art. 1, comma 2, L.R. 38/1973.
(5) "Le indicazioni del piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino l’inedificabilità, perdono efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati. L’efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termine di scadenza dei piani particolareggiati e di lottizzazione" (art. 2, L. 1187, 1968).
L’intento del Parlamento era di promuovere, nel frattempo, una legge urbanistica di nuova concezione che, riformando il principio di edificabilità dei suoli, consentisse di avocare alla mano pubblica il jus aedificandi facendo, in tal modo, venire meno le ragioni a sostegno dell’indennizzabilità dei vincoli urbanistici (6).

Questo orientamento trovò sostegno nelle pieghe della stessa sentenza (7) e che fu reso esplicito da una intervista rilasciata dal Presidente della Corte alla rivista "Astrolabio". Il prof. A. M. Sandulli prospettò al Parlamento una soluzione che
"configuri la facoltà di costruire non più connaturata al diritto di proprietà, bensì come l’effetto di una concessione pubblica da accompagnare con l’imposizione di un tributo".
 
(6) Si tratta di un disegno già noto, al centro del dibattito urbanistico sin dagli inizi degli anni ‘60.
Nel 1962, il Ministro democristiano dei LL. PP., l’on. Fiorentino Sullo, aveva proposto un progetto di riforma urbanistica che prevedeva l’esproprio generalizzato delle aree edificabili, la loro urbanizzazione e, quindi, la loro concessione ai privati con diritto di superficie. Questo progetto trovò l’opposizione più netta nei partiti conservatori che montarono la protesta nel Paese instillando la paura della sottrazione delle abitazioni in proprietà. L’on. Sullo, emarginato anche all’interno della D.C., finì anzitempo la sua carriera politica, a parte una breve e fugace apparizione come Ministro della P.I. sul finire degli anni ‘60.
Il dibattito sulla riforma urbanistica si arenò e per qualche anno non se ne parlò più. Fino a quando, nel 1965, una imponente frana, interessante l’abitato di Agrigento, non lo riportò alla luce. In quell’occasione, la classe politica, con atteggiamento ipocrita e farisaico, aprì gli occhi e, stracciandosi le vesti, gridò allo scandalo e si rese conto dell’immane disastro che la speculazione edilizia - tacitamente tollerata se non proprio incoraggiata - aveva prodotto su tutto il territorio nazionale ed i cui esiti sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti.
E si ricominciò a parlare di riforma urbanistica!
Ma, come spesso capita, passata l’ondata di sdegno, in luogo della tanto attesa e necessaria riforma urbanistica, il Parlamento approvò una legge che faceva da ponte verso la riforma (L. 765/1967) e del tutto inidonea a risolvere i drammatici problemi del nostro territorio: la montagna partorì il topolino!

(7) Nella sentenza n. 55, la Corte Costituzionale dichiara che in presenza di disposizioni riguardanti intere categorie di beni, senza alcuna distinzione, ad un particolare regime di appartenenza, non trova operatività il principio di indennizzabilità. Nel caso in questione, la categoria di beni interessata è il suolo.
Ma anche questa volta l’opposizione fu forte e bisognò attendere un altro decennio - durante il quale cambiarono sensibilmente i rapporti di forza in Parlamento e gli equilibri politici nel Paese - per l’approvazione e la promulgazione di una legge di riforma del regime dei suoli: la L. 28.01.1977, n. 10, cosiddetta legge Bucalossi dal nome del Ministro repubblicano dei LL.PP. che fu uno dei più convinti sostenitori della legge.

Nel frattempo, l’efficacia della L. 1187/1968 fu più volte prorogata:
  • di due anni con L. 30.11.1973, n. 756;
  • di un anno con L. 22.12.1975, n. 696;
  • di due mesi con L. 24.01.1977, n. 6.

 

Legge Bucalossi

 

 

 

Emanata la legge che dettava le nuove "norme sulla edificabilità dei suoli", la dottrina si è subito divisa nella interpretazione del regime vincolistico delle aree, anche se la maggioranza degli studiosi si pronunciò a sostegno della tesi che la legge Bucalossi aveva, di fatto, avocato alla mano pubblica il diritto di edificare e pertanto era venuta meno la questione relativa alla indennizzabilità dei vincoli di piano.

La divisione in dottrina, con le conseguenti opposte interpretazioni della norma, derivavano, al di là degli intenti del legislatore, dall’ermetismo del testo ed hanno aperto un enorme contenzioso tra il privato cittadino e la pubblica amministrazione ponendo nuovi problemi di legittimità costituzionale.

I dubbi sorti dalla interpretazione della norma sono stati sciolti definitivamente dalla Corte Costituzionale che, ritornando sulla questione, ha deciso che il principio della concessione edilizia, introdotto dalla L. 10/1977 (8), non ha prodotto la separazione del diritto di proprietà dal diritto di edificare, come probabilmente era nell’intento del legislatore, e, pertanto non ha risolto il problema dei vincoli urbanistici.

 

(8) "Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad esse relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione del sindaco ai sensi della presente legge" (art. 1, L. 10/1977).
"La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione" (art. 3, L. 10/1977).

Il mancato scorporamento del jus aedificandi dal diritto di proprietà è stato sancito da una duplice sentenza della Corte Costituzionale (9) e dal Consiglio di Stato (10), mentre la mancata soluzione al regime dei vincoli di piano è stata sancita dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 92 del 12.05.1982, nella quale si afferma:

  • con l’entrata in vigore della L. 10/1977, permane il contrasto con l’art. 42, comma 3 Cost., in quanto la proprietà resta gravata a tempo indefinito e senza indennizzo da un vincolo urbanistico preordinato alla futura espropriazione, sottraendo al privato la possibilità di una adeguata e razionale utilizzazione;

  • la L. 10/1977 non ha regolato la materia dei vincoli urbanistici e pertanto essi continuano ad essere disciplinati dalla L. 1187/1968, secondo cui i vincoli perdono efficacia se entro cinque anni dalla data di approvazione dello strumento urbanistico generale non vengono approvati i relativi strumenti attuativi. Una volta approvati quest’ultimi, l’efficacia dei vincoli non può essere comunque protratta oltre i termini di attuazione degli stessi.

 

(9) "Il jus aedificandi, nel sistema della L. 28 gennaio 1977, n. 10, continua ad inerire alla proprietà, poiché solo il proprietario o il titolare di un diritto reale è legittimato ad edificare, non essendo consentito che altri possa a lui sostituirsi per la realizzazione dell’opera; pertanto la concessione ad edificare non è attributiva di nuovi diritti, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, e la destinazione edilizia dei suoli non è irrilevante ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione (Corte Costituzionale, 25-30 gennaio 1980, n. 5).

(10) "Il sistema legislativo positivo risultante dall’intero testo della L. 28 gennaio 1977, n. 10, non ha operato alcun distacco della facoltà di edificare dalla proprietà del suolo, continuando tale facoltà, sia pure subordinatamente ad un provvedimento amministrativo, impropriamente denominato « concessione» , a far parte integrante della sfera giuridica del proprietario del terreno che si intende destinare alla costruzione, in relazione al riconoscimento ed alla garanzia del diritto di proprietà assicurati dall’art. 42, comma 2, Cost.." (Consiglio di Stato, sez. V^, 19.02.1982, n. 122).

A seguito della sentenza si è posto il problema della disciplina urbanistica delle aree sottoposte a vincolo dopo la scadenza del termine quinquennale stabilito dalla L. 1187/1968.

A questo interrogativo ha dato risposta il Consiglio di Stato (11), stabilendo che le aree interessate dal vincolo scaduto restano soggette alla disciplina di cui all’art. 4, ultimo comma, della L. 10/1977, prevista per i Comuni privi di strumento urbanistico. Pertanto:

  • sulle aree già sottoposte a vincolo e situate fuori dal perimetro del centro edificato, definito ai sensi dello art. 17 della L. 765/1967, è consentita l’edificazione a scopo residenziale con indice di edificabilità non superiore a 0,03 mc/mq;

  • sulle aree già sottoposte a vincolo e situate dentro il perimetro del centro edificato, sono consentite soltanto opere di restauro e di risanamento conservativo, di manutenzione ordinaria e straordinaria, di consolidamento statico e di risanamento igienico;

  • le superfici coperte di edifici o di complessi produttivi non possono superare 1/10 dell’area di proprietà.

Questo regime deve considerarsi transitorio, in quanto l’amministrazione comunale non può lasciare il territorio o una parte di esso privo di destinazione urbanistica. Tale obbligo discende dall’art. 7 della L. 1150/1942 (Il piano regolatore generale deve considerare la totalità del territorio comunale) (12).

 

(11) Tra i tanti pronunciamenti: (Cons. Stato, sez. V^, 15.03.1991, n. 262); (Cons. Stato, sez. IV^, 28.01.1992, n. 82); (Cons. Stato, sez. IV^, 28.02.1992, n. 226).
(12) Cfr., Cons. Stato, sez. IV, 22.02.1994, n. 159.